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Le Motivazioni

le-basi-neurobiologiche-della-motivazione_1319Le motivazioni costituiscono un’organizzazione più o meno durevole di forze, nell’ambito della personalità, coerentemente orientate e mediate dai processi intrapsichici ed interpersonali. Tali motivazioni attingono ai bisogni più primitivi dell’individuo, come alle esigenze indotte dalla educazione e dalle situazioni ambientali del presente. Queste esigenze risultano tanto più profonde ed importanti quanto più presto esercitano la loro influenza sulla storia e sulla vita dell’individuo.

L’ambiente comprende la realtà storica, sociale, familiare, economica, esistenziale, lavorativa, educativa, ecc. in cui l’individuo vive immerso fin dalla nascita. Rappresenta il calco sociale che determina da un lato l’ interiorizzazione di sistemi normativi d’atteggiamento e di valore e dall’altro l’assunzione di ambiti di comportamento prescritti dai ruoli sociali.

La cultura è il perimetro più esterno entro cui possono prendere vita e manifestarsi le possibilità degli individui in termini di personalità. La cultura offre la possibilità all’individuo di non sperimentare nuove forme di comportamento, ma anzi di utilizzare in gran parte quelle forme approntate e trasmesse dalle generazioni precedenti (eredità culturale).gruppo, team

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il gioco

Non è facile definire cosa esattamente si intenda per gioco.

Secondo una prima interpretazione il gioco è una attività fine a sé stessa,cioè “una finalità senza fine” ma non degradata, che è piacevole di per sè e si sottrae alle categorie temporali e che proprio per queste caratteristiche si contrappone alla attività lavorativa.

Il gioco è come una attività biologica,finalizzata a ripristinare l’equilibrio neurodinamico mediante una scarica motoria in cui viene liberato un surplus energetico.

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Il gioco è una attività piacevole in quanto nella libertà di scelta e d’approccio risultano gratificate esigenze profonde di natura affettiva.

Bambini felici

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Sognare

 

sognare, significato dei sogni, capire i sogni

 

Dopo 10 minuti circa dal risveglio ben il 90% di quello che abbiamo sognato è stato dimenticato.
E ci aggiungerei purtroppo…

Non credete a chi vi dice “Io non sogno mai” perchè semplicemente, dimentica. Gli uomini tendono a sognare maggiormente altri uomini mentre le donne sognano in maniera equa persone di entrambi i sessi. Anche i sogni erotici sono distribuiti in maniera uguale tra i generi , infatti sia maschi che femmine fanno lo stesso numero di “sogni a contenuto erotico” per notte.

 

sogni, capire i sogni, interpretare i sogni

Ho bisogno di sogni. Non vivo senza. Uno studio ha dimostrato che le persone svegliate all’inizio di ogni sogno ma non private delle 8 ore di sonno hanno problemi di irritabilità, concentrazione, allucinazioni e dopo 3 giorni cominciano a sviluppare sintomi di psicosi varie.

Quando sognate una persona, un posto, un’auto o altre cose che credete di non aver mai visto prima, vi sbagliate. Sogniamo solo quello che conosciamo o abbiamo visto, quindi quella vecchietta di settant’anni circa che vi faceva delle avances potrebbe essere stata in fila davanti a voi al supermercato quando avevate 8 anni .

sognare, interpretazione dei sogni Freud

Un buon 12% delle persone sogna in bianco e nero. Cambia poco, anche perchè i loro sogni trattano gli stessi “argomenti” di quelli a colori, ma quel poco è molto interessante: i sogni violenti hanno un impatto emozionale maggiore su chi sogna a colori piuttosto che in bianco e nero.

– I sogni non trattano quello che sembra.

– Tutto è altamente simbolico in un sogno.

 – Stimoli esterni invadono i sogni.

sogni, attività onirica, il significato dei sogni

Mentre dormiamo siamo paralizzati. Il nostro corpo è virtualmente paralizzato durante la fase REM, probabilmente per evitarci di mettere in atto quello che sogniamo (che potrebbe essere pericoloso o strano).

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L’adolescenza: un pianeta da esplorare e aiutare

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Adolescenti e Genitori

a cura di Emanuela Boldrin
L’adolescenza è una fase che a volte crea intolleranze, ansia, conflitti nella famiglia che non è preparata a gestirla e può provocare incomprensioni e confusione di ruoli.

Il desiderio di ribellione fa parte di uno degli aspetti difficili da accettare nell’adolescente
con le loro richieste di piercing, di capelli biondi o di cellulari nuovi, così come diventa impegnativo ascoltarli nell’importanza della loro delicata sensibilità.

INSEGNARE E DARE RISPETTO

Una prima regola nella corretta educazione da dare ad un giovane è il rispetto delle norme ma anche dei rispettivi bisogni. Rispettare i programmi e le esigenze del ragazzo come fossero importanti tanto quanto i nostri ci sostiene nel far accettare altre indicazioni. Quando si deve scegliere fra la nostra priorità e le loro richieste serve collaborare nella scelta chiedendo loro come si può fare per partecipare alla risoluzione del problema.

In questo modo spesso si ottiene la fiducia ed il riconoscimento delle loro esigenze, senza ricorrere all’imposizione della propria decisione.

RICONOSCERGLI UNO SPAZIO

Quando il ragazzo risponde a monosillabi, evita lo sguardo, sbuffa quando deve condividere qualcosa con gli adulti o si sente minacciato dalle domande inquisitorie del genitore, il messaggio che ci vuole esprimere è quello di ottenere uno spazio. Può essere uno spazio nel senso logistico ad esempio una stanza sua, o del suo tempo magari per navigare solo con la fantasia oppure uno spazio nelle sue aspirazioni come il desiderio di affrontare sfide ed esperienze nuove.

Le domande di cosa fa o ha fatto possono essere interpretate dall’adolescente come una violazione della sua privacy, un controllo delle sue azioni ed è frequente che sbotti o che ci accusi di non fidarci di lui.

Il suggerimento è aggirare l’ostacolo chiedendogli come ha trascorso la giornata, quale è stato il momento più significativo per lui, con quale amico ha giocato ecc. in questo modo si fornisce un ascolto e si conoscono indirettamente tante cose.

ASCOLTARLO

Il genitore spesso si lamenta di non essere ascoltato nei solleciti di studiare, di ordinare le proprie cose, di rispettare gli orari ecc. ma noi siamo proprio sicuri di ascoltarli correttamente e completamente, soprattutto nelle loro emozioni?

A questa età le esperienze vengono vissute in modo amplificato, esiste un’ipersensibilità su tutto, le fasi di innamoramento sono travolgenti, gli impulsi anche ormonali incontrollabili ed emotivamente le delusioni lasciano tracce importanti nella autostima e della sicurezza di sé.

Per questo l’adulto deve impegnarsi ad ascoltare con attenzione le parole dette e l’atteggiamento assunto per aiutare il ragazzo ad arginare le esuberanze e sopire le inquietudini. Le risposte da dare sono di considerare il momento difficile, senza esprimere svalutazioni dei loro sentimenti e magari a creare un ponte fra l’adulto ed il ragazzo accennando alle situazioni simili che da giovani anche il genitore ricorda di aver vissuto.

RESPONSABILITÀ

Può esserci la tendenza nel genitore di avere aspettative maggiori nel senso di responsabilità del figlio o attivare confronti in cui lui era più bravo, più ubbidiente e rispettoso delle regole o nel versante opposto tendere a proteggerlo troppo in una campana di vetro. In questo modo non lo si aiuta ad assumersi le responsabilità.

Occorre educarlo a fare delle scelte e ad accettare le conseguenze delle sue azioni. Questo comporta dargli fiducia, gratificarlo nelle azioni positive e sostenerlo negli insuccessi che possono renderlo insicuro.

COERENZA

Molte insicurezze vengono accentuate nell’adolescente se scivoliamo nei messaggi contraddittori. Le minacce di punizioni non mantenute, le promesse di premi slittate troppo nel tempo, gli atteggiamenti diversi o opposti dei due genitori sulla stessa cosa, sminuiscono il potere contrattuale dell’adulto ed il ragazzo tenderà a sfruttare la posizione più conveniente e si rivolgerà alla persona che gli dà più veloce o soddisfacente ascolto.

Se si promette bisogna mantenere con scrupolosità. Se l’azione è impossibile si rinvia a breve dopo aver sottolineato che anche per noi mantenere i patti è una cosa importante.

RINFORZARE L’AUTOSTIMA

L’adolescente spesso sottolinea i propri limiti e difetti in modo esasperato, un brufolo, essere escluso da una partita o non partecipare ad una festa possono essere vissuti come tragedie o motivi di emarginazione.

E’ bene riconoscere il disagio cercando di ridurlo, rinforzando il fatto che si è ugualmente orgogliosi di lui, che è bravo lo stesso, che gli amici lo accettato lo stesso o che fisicamente piace ugualmente.

COSA FARE DOPO UN CONFLITTO?

Le liti furibonde per l’uso della playstation, per l’acquisto del motorino o per l’uscita con gli amici può creare risentimenti profondi e orgogli reciproci che impediscono di far pace subito o del tutto.

A volte si crea una sfida a chi resiste per più tempo col muso lungo e questo alimenta
sofferenze inutili. La cosa migliore è lasciare solo il tempo necessario per sbollire la rabbia
poi riconciliarsi. La modalità può essere chiedere scusa se siamo noi adulti ad aver reagito con troppa impulsività, riaprire la questione minimizzandola se la cosa è di comune responsabilità analizzandola, o anche lasciare decadere ogni spiegazione e semplicemente riaprire il dialogo decidendo di far pace.

LA QUESTIONE DELLA LIBERTA’

La libertà è un tema dominante nell’adolescenza. Da un lato la paura dei pericoli, dall’altro la voglia di essere autonomi, diventano due lati della medaglia difficili da affrontare con equilibrio. La principale attenzione è mentalmente aprirsi al fatto che il ragazzo sta diventando grande e non è più un cucciolo da accudire.

Limare le sue esuberanze quando si butta nelle esperienze nuove è certamente utile, ma il suggerimento è spingerlo verso l’autonomia anche se lo porta a vivere momenti difficili o delusioni perché lo spronano ad uscirne con le proprie forze, lo prepariamo nella vita ad affrontare anche punizioni o insuccessi.

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Il benessere

IL CORPO E LA MENTE: LA COMUNICAZIONE COME CONTRIBUTO AL BENESSERE ED ALL’INTEGRAZIONE DI ENTRAMBI di B E.

IL BENESSERE


Il termine Benessere deriva da ben – essere = “stare bene” o “esistere bene” ed è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano.

Nel passato il significato di benessere coincideva con la salute fisica, ora ha assunto un significato più ampio, arrivando a coinvolgere tutti gli aspetti mentali, sociali, relazionali e spirituali.

Pensando alla parola Benessere si affacciano alla mente immagini e sensazioni positive: rilassamento, tranquillità, cura, vitalità, salute, equilibrio, positività, affettività, pace, silenzio, armonia…..

Il benessere si colloca anche nella relazione e nel sentimento con l’altro e con se stessi.“Armonizzare le funzioni della nostra personalità, valorizzare l’intenso bisogno dell’altro, soprattutto espresso nella necessità di dare e ricevere amore aiuta a risvegliare le naturali sapienze e felicità latenti in ogni persona.”(Ferrini M. 2011)

In tutti questi contesti entra in gioco un saper bene percepire e comunicare le sensazioni positive, sia attraverso gli aspetti del tono e dell’uso delle parole sia con i movimenti e con i gesti che trasmettono un’energia positiva con l’ambiente e con noi stessi. Pensiamo al tocco, al contatto corporeo, alla carezza, al massaggio ma anche al piacere che può offrirci uno sguardo o un sorriso.

Può essere utile descrivere alcuni concetti di base per collocare il significato di comunicazione e benessere ed il legame fra i due.

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LA COMUNICAZIONE


La parola COMUNICAZIONE deriva dal latino cum = con, e munire = legare, costruire, il significato communico sempre in latino corrisponde a mettere in comune, far partecipe.

Le principali regole sulla comunicazione sono:

  • non si puo’ non comunicare
  • il comportamento non ha il suo opposto
  • l’attività’ e l’inattività, le parole e i silenzi hanno tutti il valore di messaggio
  • non esiste la non comunicazione

Paul Watzlawich, nella sua fondamentale opera sulla comunicazione sottolinea un principio essenziale della comunicazione: Ogni comunicazione procede su due livelli, il piano del contenuto ed il piano della relazione, ed è quest’ultimo a definire il primo. (Watzlawich, 1971)

Mediante le parole trasmettiamo delle informazioni e con i segnali del corpo diamo “informazioni alle informazioni”. Mentre la comunicazione verbale è guidata dall’intenzione, i gesti inconsapevoli del corpo sono un linguaggio più sincero: quando ci rapportiamo con gli altri, infatti, riusciamo a controllare le parole, ma non possiamo sempre gestire i movimenti, le espressioni attraverso le quali il corpo tradisce il vero stato d’animo.

Pensiamo all’importanza del linguaggio del corpo nel bambino attraverso gli abbracci, il calore della propria pelle a contatto con quella della madre ed a quanto si sente rassicurato nello stabilire i primi rapporti col mondo esterno.

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Le 11 idee irrazionali (o disfunzionali) di Albert Ellis

Il termine “idee irrazionali” viene coniato da Albert Ellis (Ellis, 1957-1962) fondatore della RET, Terapia Razionale Emotiva.
Ellis ha individuato 11 convinzioni disfunzionali che rappresentano ideologie, convinzioni e atteggiamenti correlati ai più importanti disturbi emotivi e comportamentali.

1) Io, essere umano adulto, ho assoluto bisogno (estrema necessità o esigenza) di venire (sempre) amato, stimato e approvato (o almeno non giudicato male – o al minimo ignorato) da tutte le persone (che io ritengo) significative (importanti) del mio ambiente = da tutti quelli che dico io – altrimenti è gravissimo, orribile, terribile, catastrofico.

2) Io devo assolutamente essere (e/o dimostrarmi) sempre perfettamente adeguato, competente e di successo in tutto quello che faccio e sotto ogni rispetto (o almeno in questa cosa specifica, oppure in almeno una cosa) – altrimenti sono indegno di valore = valgo poco o niente.

3) Tutte le persone che dico io (compreso me stesso) devono assolutamente comportarsi (sempre) come mi pare giusto (come dico io) – altrimenti sono intrinsecamente cattive, malvagie e scellerate, e quindi meritano di essere severamente condannate e punite (anche perché così imparano).

4) Tutte le cose devono assolutamente andare (sempre) come piacerebbe a me, come mi sembra giusto che vadano (insomma, come dico io) – altrimenti è inaccettabile, intollerabile, insopportabile (io non lo accetto, non lo tollero, non lo sopporto).

5) La mia infelicità (disagio, ansia, depressione, angoscia, rabbia, eccetera) dipende da cause esterne (o essenzialistiche) e quindi io posso fare poco o niente per cercare di controllare le mie pene e i miei disturbi (varianti: io reagisco così – sono fatto/a così – è la mia natura, il mio carattere, la mia personalità).

6) Siccome può succedere (succedermi) qualcosa di brutto, pericoloso o dannoso allora:
a) mi devo preoccupare in continuazione;
b) devo pensare che succederà (quasi) di sicuro;
c) che succederà nelle forme peggiori;
d) che non ci potrò (non ci si potrà, nessuno ci potrà) mai fare nulla;
e) e che tutto finirà nel modo più orribile, terribile e catastrofico.

7) Se qualcosa mi sembra difficile (perché richiede impegno, fatica, disagio, o una mia assunzione di responsabilità, ovvero mi provoca ansia) allora mi conviene evitarla piuttosto che affrontarla.

8) Io sono debole (insicuro/a, incapace, handicappato/a, emotivamente instabile e facilmente vulnerabile) e quindi ho bisogno di qualcuno più forte a cui appoggiarmi e da cui dipendere – altrimenti non ce la posso fare (a vivere, a esser felice, a lavorare, a muovermi, ecc.).

9) Il mio passato (la mia infanzia, le mie esperienze precoci) è la determinante assoluta delle mie condizioni attuali; e se una volta qualcosa ha avuto una forte influenza su di me, allora continuerà per sempre ad esercitare lo stesso effetto – quindi non c’è niente da fare (la mia personalità, il mio carattere è stato formato in questo modo e quindi non si può cambiare).

10) Se qualcuno (gli altri, tutti gli altri o tutti quelli che dico io) ha qualche problema o disturbo o sofferenza che gli fa fare (dire, pensare o sentire) qualcosa che non mi piace (che mi sembra sconveniente, irragionevole, dannoso, ingiusto, ecc.) allora io mi devo tremendamente sconvolgere per questo motivo.

11) E’ sempre possibile trovare una soluzione perfetta (o avere una sicurezza assoluta, ovvero un controllo completo) di fronte a qualsiasi problema umano, e quindi io la devo assolutamente raggiungere – altrimenti succederanno catastrofi ed orrori.

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Il mobbing

Questa parola deriva dall’inglese “to mob”, letteralmente “assalire”, ma può essere meglio definita come una “sindrome di accerchiamento”.

a cura della dott.ssa Emanuela Boldrin – Psicologa

“Il mobbing non riguarda solo il rapporto tra datore di lavoro e il lavoratore – ha mobbing quando un dipendente è oggetto ripetuto di attacchi da parte dei superiori (datore di lavoro) ma anche dei suoi colleghi di pari grado ed in particolare quando vengono attuati comportamenti diretti ad isolarlo, discriminarlo o comunque a provocarne un progressivo disadattamento lavorativo. Il mobbing è una forma di violenza
psicologica che si attua in ambito lavorativo e che implica la presenza di un aggressore (mobber) rappresentato da una o più persone di una vittima (il lavoratore aggredito) e di spettatori (i colleghi) che generalmente prendono le distanze dal malcapitato, nel timore
d’incorrere in ritorsioni personali. Viene esercitato attraverso una molteplicità di comportamenti ed in una certa percentuale probabilmente è sempre stata presente nelle organizzazioni.

Mobbing “orizzontale” e “verticale”

Si possono avere due tipi di mobbing:
VERTICALE – quando implica la gerarchia organizzativa:
a) mobbing strategico quello che viene attuato dall’azienda per rimuovere un dipendente scomodo
b) bossing è la forma più frequente usata nelle pubblica amministrazione in cui si tenta di estromettere il soggetto dal processo lavorativo
c) down – up è quando un gruppo di collaboratori si coalizza per estromettere il capo, svuotandolo di potere

ORIZZONTALE – è quello praticato dai colleghi meno frequente in Italia. Le azioni più ricorrenti da essere osservate sono:
1) attacchi alla possibilità di comunicare quando il capo o i colleghi limitano le possibilità di esprimersi della vittima, lo interrompono quando parla, lo criticano, ecc,
2) attacchi alle relazioni sociali quando il soggetto è sempre isolato, sembra che non esista
3) attacchi all’immagine sociale quando si sparla o si ridicolizza
4) attacchi alla qualità della situazione professionale e privata quando non gli si affidano più compiti da svolgere o si cambiano spesso
5) attacchi alla salute se lo si costringe a lavori che danneggiano la salute o
a scopo sessuale.

Heinz Leymann, medico tedesco vissuto in Svezia, è stato il primo ricercatore a dare, negli anni 80, una definizione completa di mobbing cioè di modalità di comunicazione ostile e non etica diretta sistematicamente da uno o più soggetti verso un solo individuo che è
così spinto e mantenuto in una condizione di impotenza, che lo porta a sofferenza mentale, psicosomatica e a disagio sociale.

Come riconoscerlo

Il mobbing non è uno stato ma un cambiamento del “clima” lavorativo. Le azioni che possono crearlo sono:

-impedire al lavoratore preso di mira di esprimersi,
-isolarlo,
-metterlo in difficoltà,
-svilire il suo lavoro,
-esporlo a rischi per la salute.

Gli effetti che provoca

Il mobbing è causa di importanti effetti sulla salute del soggetto. Possiamo distinguerli in: effetti tipici del disturbo post-traumatico da stress (fenomeni di iperallerta, pensieri ossessivi, azioni di esitamento, ansia, depressione) e disturbi dell’adattamento (che sono gli stessi fenomeni ma in forma minore o più lieve).

Consigli da dare

I disagi emotivi e fisici del lavoratore mobbizzato lo rende vulnerabile a prendere decisioni sbagliate. Per affrontare al meglio la situazione si
suggerisce di:
1) rafforzare se stessi e documentarsi per avere una maggior consapevolezza della propria situazione,
2) raccogliere le informazioni,
3) cercare degli alleati.

I disagi che accompagnano questo fenomeno possono anche sommarsi a delle sofferenze personali preesistenti, in entrambi i casi la prevenzione e la cura dei disturbi che si manifestano sono un elemento determinante della capacità di affrontare una condizione
di mobbing.

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Chi rimborsa la psicoterapia?

di Federico Zanon

La spesa per affrontare una psicoterapia può essere un aspetto che ostacola l’accesso delle persone alle prestazioni degli psicologi e psicoterapeuti. Ma alcune polizze assicurative per la copertura di spese sanitarie permettono di rimborsarne il costo. Una ricerca ha permesso di trovarne alcune. Ecco una prima parte dei risultati.

Le condizioni di rimborso sono molto variabili, così come i premi di polizza. Senza la pretesa di essere esaustivi, e rinunciando ad una valutazione che tenga conto del premio a carico dell’assicurato, questo articolo presenta una breve rassegna delle principali polizze che offrono rimborsi per la psicoterapia. La valutazione è effettuata soprattutto sulla base della capacità della polizza di coprire la spesa realmente da affrontare per un ordinario percorso di psicoterapia.

Occorre precisare che molti piani di copertura non sono di libera adesione, ma sono riservati ai dipendenti di specifiche aziende e a particolari categorie di lavoratori. Si tratta quindi di polizze sanitarie in convenzione, a cui non è possibile accedere se non si hanno specifici requisiti.

Ecco le prime polizze trovate: 

FASDAC (fondo assistenza sanitaria dirigenti aziende commerciali): da nomenclatore 2012 la polizza rimborsa un massimo di 50 sedute di psicoterapia l’anno, per 35 Euro ciascuna. Valutazione: ottima offerta, che copre buona parte della spesa reale per la psicoterapia.

CASAGIT: la polizza sanitaria integrativa dei giornalisti prevede un rimborso per le spese di psicoterapia di 30 Euro per seduta, per 30 sedute l’anno. Un rimborso globale di 900 Euro, erogabile anche per psicoterapia svolte da uno psicoterapeuta libero professionista. Valutazione: l’offerta è di ottimo livello, perché offre un rimborso compatibile con il costo reale di una psicoterapia.

UNIPOL [Unisalute]: la compagnia offre diverse polizze che prevedono rimborsi per la psicoterapia. Da segnalare la polizza Kasko per i danni conseguenti ad un incidente stradale con colpa, che rimborsa anche sedute di psicoterapia, e le polizze convenzionate per iscritti AUSER (associazione anziani) e UGL (sindacato). Le prestazioni della compagnia sono erogate esclusivamente attraverso una rete di professionisti convenzionati (dentisti, medici, psicoterapeuti), che in cambio di un flusso costante di invii applicano tariffe agevolate. Per la psicoterapia, esiste un accordo nazionale con MoPI (Movimento Psicologi Indipendenti) che prevede una franchigia versata direttamente dal cliente allo psicoterapeuta, e un ulteriore rimborso versato da UNISALUTE ad integrazione, fino a 75 Euro per seduta (fonte: MoPI). Valutazione: è una buona offerta, e si tratta di una forma di rimborso ibrida, con un costo che ricade parzialmente sul cliente. Non è chiaro il numero massimo di sedute rimborsabili.

FISDE (fondi integrativo sanitario gruppo Enel): rimborsa varie prestazioni psicologiche (non solo psicoterapia) per un totale di 520 Euro annui, al valore massimo di 40 Euro a prestazione. Valutazione: buona polizza, sopratutto per la varietà di prestazioni rimborsabili. Il limite di 520 Euro annui risulta basso rispetto ad altre polizze: permette di accedere ad una prestazione al mese da 40 euro.

ASSILT (assistenza sanitaria lavoratori telecom): rimborsa 80 sedute l’anno per un costo non precisato, per due anni consecutivi. Poi occorre attendere tre anni per accedere nuovamente al rimborso per la medesima prestazione. La psicoterapia può essere rimborsata soltanto se prescritta da una struttura pubblica di Neurologia o Neuropsichiatria, ma poi può essere svolta da qualunque psicoterapeuta iscritto ad albo. Allo scadere del primo anno è prevista una relazione da parte del terapeuta. Valutazione: a parte i vincoli di invio, la prestazione offerta è di ottimo livello e copre la reale cadenza e durata di una psicoterapia.

C’è poi chi esclude esplicitamente il rimborso per la psicoterapia, come la polizza FASI (Fondo Assistenza Sanitaria Integrativa per dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi), o il Fondo EST (per dipendenti e dirigenti del settore commercio, turismo e affini). Quest’ultimo in particolare rappresenta una parte importante dei lavoratori italiani.

ALL’ESTERO…

In Svizzera, dove l’assicurazione sanitaria ha avuto uno sviluppo importante perché obbligatoria, le polizze offrono una gamma molto ampia di prestazioni, e le psicoterapia generalmente non mancano:

GROUPE MUTUEL: si tratta di un’assicurazione svizzera che offre polizze obbligatorie e complementari. La polizza obbligatoria (per cittadini svizzeri) descrive l’offerta in questo modo:  “Bisogna distinguere fra i trattamenti effettuati dai medici e quelli effettuati dagli psicologi. Se la psicoterapia è ad opera di un medico psichiatra o di uno psicoterapeuta delegato che lavora sotto la responsabilità di un medico, l’assicurazione obbligatoria delle cure medico-sanitarie copre i costi per un massimo di 10 sedute. Queste prestazioni sono suscettibili di partecipazione ai costi (franchigia e/o quota-parte del 10%). In caso di necessità medica, la copertura include sedute supplementari. Quando invece la psicoterapia è ad opera di uno psicologo indipendente, non è prevista alcuna partecipazione da parte dell’assicurazione obbligatoria delle cure medico-sanitarie.” Valutazione: per essere una polizza obbligatoria offre prestazioni interessanti, specie se paragonate all’offerta del servizio pubblico italiano. Tuttavia, i costi per la psicoterapia svolta con liberi professionisti non è rimborsabile e 10 sedute sono un limite importante.

CSS: offre diverse polizze, con premi e prestazioni differenziate. Ma il rimborso per la psicoterapia è pressoché costante: 40 Franchi Svizzeri per seduta (circa 30-35 euro), per un massimo di 20 sedute l’anno. Valutazione: certamente non copre l’effettiva spesa per una psicoterapia, ma se si considera che la prestazione è presente in quasi tutte le polizze offerte la valutazione è positiva.

La ricerca su questo tema continuerà. Nel frattempo, potete segnalarmi compagnie o polizze di vostra conoscenza che forniscano copertura per le spese di psicoterapia.

. L’interesse dimostrato ha portato a questo secondo articolo, in cui vorrei offrire aggiornamenti sulla situazione e interessanti suggerimenti dettati dall’esperienza dei colleghi.

Ecco in sintesi gli argomenti di cui parlerò:

  1. Le novità sulle polizze che includono la psicoterapia che ogni cittadino può stipulare
  2. Le polizze dedicate a categorie di lavoratori
  3. Suggerimenti su come usare e non usare queste informazioni
  4. L’uso delle polizze per coprire la psicoterapia didattica
  5. E infine, chi proprio non ne vuol sapere di psicologia e psicoterapia

 

(1)

Le polizze aperte a tutti.

 

Una prima, significativa novità riguarda UNISALUTE di UNIPOL. Una delle più grandi compagnie assicurative operanti in Italia offre prestazioni psicologiche di buon livello, ma solo nella Polizza Kasko e solo in seguito ad incidente stradale grave, che abbia provocato la morte di una persona oppure gravi lesioni fisiche dell’assicurato o dei familiari.
In questi due casi, dopo una prima valutazione a domicilio da parte di uno degli psicoterapeuti convenzionati con UNIPOL, potranno essere offerte prestazione per 6 o 12 mesi, mirate alla risoluzione del disturbo post-traumatico. Le prestazioni sono assicurate presso lo studio professionale dello psicoterapeuta per un massimo di 15 sedute se l’incidente ha provocato gravi lesioni a persona diversa dall’assicurato o dai suoi familiari.
Costo per l’assistito: ridotto, sono 39 Euro/anno la polizza generica. Vanno però considerate le diverse personalizzazioni possibili, che inevitabilmente fanno lievitare il prezzo.
Pregi: riconosce la centralità delle conseguenze psichiche del trauma stradale e offre una prestazione che pare complessivamente adeguata. Il prezzo è interessante.
Difetti: offre una copertura per le cure psicologiche limitata agli esiti di trauma stradale grave.

 

La seconda segnalazione importante è per WORLD WIDE CARE di ALLIANZ. Si tratta di una polizza pensata soprattutto per chi vive all’estero o si sposta spesso per lavoro, e quindi necessita di una copertura sanitaria anche per le spese sanitarie in paesi diversi dall’Italia.
La polizza ha 4 piani di base. Tutti coprono i costi per la psicoterapia e le spese psichiatriche solo in regime di ricovero o day hospital, ma basta aggiungere un piano integrativo per ottenere la copertura di 30 sedute di psicoterapia all’anno.
Costo per l’assistito: Con la combinazione Premier Individual + Gold Individual, al costo di 3500 Euro/anno è possibile ottenere la copertura per 30 sedute, con un controvalore di prestazioni che può andare dai 1500 ai 3000 euro. Con la combinazione Essential Individuale + Silver Individuale, al costo di 2500 Euro/annui è possibile ottenere un rimborso per 20 sedute di psicoterapia.
PREGI & DIFETTI: La qualità della polizza è molto alta in termini di prestazioni coperte, e i prezzi si adeguano di conseguenza. Occorre però molta attenzione al cosiddetto periodo di carenza a cui alcune prestazioni, fra cui le cure psicologiche e psicoterapiche, sono soggette. Si tratta di una clausola contrattuale per cui occorre essere assicurati da almeno 18 mesi prima di poter accedere al rimborso di alcune prestazioni. Un meccanismo cautelativo per evitare esborsi eccessivi da parte delle compagnie.

 

(2)

Le polizze riservate a specifiche categorie di lavoratori.

 

In questo caso, lo psicologo o psicoterapeuta può usare le informazioni che seguono per orientare la propria pubblicità ad un target specifico di lavoratori. Si passa così dall’ottica tradizionale di una promozione basata sugli ambiti di intervento (coppia, adulti, disturbi d’ansia, etc.) ad un’ottica basata sulle potenzialità di acquisto.

 

Ecco allora un aggiornamento delle categorie di lavoratori che beneficiano di una copertura per le spese di psicoterapia, verso cui è possibile rivolgersi per una promozione targettizzata:
  • Giornalisti iscritti alla cassa previdenziale INPGI, che abbiano stipulato la polizza integrativa CASAGIT.
  • Dipendenti della Banca d’Italia attraverso la CASPIE (Cassa di Assistenza Sanitaria tra il Personale dell’Istituto di Emissione).
  • Dipendenti del Gruppo ENEL, attraverso il FISDE (Fondo Integrativo Sanitario Dipendenti ENEL)
  • Dipendenti Telecom, attraverso ASSILT (Associazione per assistenza sanitaria integrativa delle aziende gruppo Telecom): si conferma un’ottima polizza, che copre nel dettaglio i testi di livello e di personalità, la psicoterapia fino a 35,00 Euro/seduta per 80 sedute l’anno, a cui si aggiunge la copertura per il trattamento residenziale delle dipendenze. Quest’ultimo è un plus che mi è particolarmente caro, perché è il mio settore professionale.
Molti colleghi mi segnalano che non è più attiva la convenzione MoPI-Unipol, che avevo incluso nel mio primo articolo. Unipol in effetti non ne fa menzione nel proprio sito.

 

(3)

I suggerimenti più interessanti dall’esperienza dei colleghi che mi hanno scritto.

 

Piccolo vademecum Fare/Non fare per l’uso delle informazioni che ho fornito nel mio articolo:

 

Non è utile rivolgersi direttamente alle compagnie assicurative ed offrirsi per forme di convenzione: di solito, se si organizzano convenzioni è la compagnia a muoversi per cercare professionisti, e generalmente si rivolge a strutture consolidate (case di cura, ospedali provati, grandi poliambulatori, etc.), dove può facilmente trovare una rosa di prestazioni in unica soluzione.

 

E’ utile sondare il proprio territorio alla ricerca di enti o aziende che offrono ai propri dipendenti una polizza a copertura della psicoterapia, e impostare un’azione di marketing molto focalizzata. Questo non significa, come mi ha scritto una collega, distribuire personalmente la propria brochure all’uscita: lei che si occupa di bambini ha scelto un gadget (6 matite colorate) con un claim molto semplice e l’indirizzo del proprio sito stampati sopra. E ovviamente ha ingaggiato una persona per distribuire il materiale.

 

E’ utile informare il paziente che potrebbe avere una polizza a copertura della psicoterapia. Spesso arrivano nei nostri studi persone interamente assorbite dai propri stati d’animo e aspettative, e dopo mesi scoprono casualmente di avere una parziale o totale copertura per la psicoterapia, magari perché si sono confidate con la collega di lavoro. Una psicologa mi ha scritto raccontandomi che una paziente le ha fatto rifare le parcelle, per adeguarle alle condizioni dettate dalla polizza!

 

Non è utile offrirsi direttamente alle aziende i cui dipendenti beneficiano di polizze, prima di tutto perché non è l’azienda a offrirla direttamente (di solito è una fondazione o un ente solidaristico, che acquistano le polizze “all’ingrosso” dalle compagnie), e poi perché nessuno può fornirvi dati personali sui lavoratori.

 

Non è utile cercare convenzioni in cui accreditarsi, con l’idea di ricevere invii: se esiste una copertura per la psicoterapia, generalmente copre le prestazioni di qualunque professionista abilitato e iscritto all’albo. Se esistono convenzioni, sono le compagnie a muoversi: UNIPOL ha una rete di professionisti convenzionati, ma c’è una ragione precisa ed è l’expertise nel campo dei disturbi post-traumatici.

 

(4)

L’uso del rimborso per coprire le spese per la psicoterapia didattica.

 

Questo tema, molto caro ai colleghi che mi hanno scritto, mette a nudo un problema importante della nostra professione: la necessità formativa di compiere un percorso di psicoterapia, in una fase di vita in cui è difficile coprirne i costi.

Quello che posso dire in merito è che nessuna polizza è concepita per andare in perdita. Partendo da questo presupposto, le compagnie tendono ad escludere spese, come quelle dentistiche o psicoterapiche, che non sono percepite come essenziali per la vita e la salute delle persone e che possono dar luogo ad esborsi economici importanti rispetto al premio pagato dall’assicurato.

Partire dal presupposto di stipulare una polizza per coprire le proprie spese di psicoterapia didattica può rivelarsi sbagliato dal punto di vista economico: il costo per la polizza potrebbe superare le spese di psicoterapia, oppure la compagnia potrebbe non voler rinnovare il contratto con noi l’anno successivo. Naturalmente, se si è nelle condizioni di appartenere ad una delle categorie di lavoratori che dispone di polizze speciali (dipendenti di banca, giornalisti CASAGIT, etc.) e al contempo di è in formazione psicoterapica, nulla vieta di usare con profitto la copertura assicurativa.

Su questo punto, così sentito fra colleghi, si dovrebbe forse promuovere un discorso solidaristico all’interno della categoria.

(5)

E infine, chi proprio non ne vuol sapere di psicologia e psicoterapia.
Alcune compagnie assicurative escludono esplicitamente le cure psicoterapiche e le cure in conseguenza di disturbi psichiatrici o mentali, anche nevrotici. L’esclusione è messa nero su bianco nel contratto.
Di solito si tratta di polizze che dedicano maggiore attenzione ad altri aspetti della copertura sanitaria, come i ricoveri, gli interventi chirurgici o gli indennizzi per perdite funzionali. Eccone alcune delle polizze che escludono esplicitamente la copertura:
  • PROTEZIONE SALUTE di AXA
  • ASSISANITARIA del gruppo STEFFANO
  • EURA SALUTE di EUROPE ASSISTANCE
  • SARAMEDICAL di SARA ASSICURAZIONI
  • DETTOFATTO SALUTE di ASSICURAZIONI GENERALI
  • POLIZZA SANITARIA INTEGRATIVA offerta dalla CASSA NAZIONALE COMMERCIALISTI

Concludo dicendo che la ricerca su questo tema non è stata facile. L’abitudine delle compagnie assicurative di privilegiare la pubblicità all’informazione ha reso laboriosa la ricerca dei dati concreti sulle polizze. Spero che il distillato che ne è uscito valga il tempo speso.

 di Federico Zanon
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Benessere

La psicoterapia mira a riattivare le risorse che ogni individuo ha, e che per motivi diversi, durante la vita, possono risultare inattive.

Fondamentale risulta il concetto di benessere. Benessere significa, prima di tutto, prendere il TEMPO, anche mezz’ora al giorno, per sé stessi.

E’ un modo di darsi una carezza che può cambiare il gusto dell’intera giornata. Benessere significa prendere il proprio SPAZIO.

La propria camera, il proprio laboratorio creativo, un pomeriggio al mare con un romanzo che fa sognare. Laddove necessario, questo spazio può trovarsi, nello studio del terapeuta. Luogo di accoglienza, di ascolto e di scambio umano autentico.

Tutte dimensioni, che nell’epoca del virtuale e della crescita tecnologica esponenziale, sono tutt’altro che scontate.

Benessere significa ascoltare sè stessi… Quei “piccoli desideri” da realizzare, e che troppo spesso vengono ignorati, regalano colore alla vita.

 

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Rivedere cose già viste

Ecco perche’ ci piace rivedere piu’ volte un film

(AGI) – Washington, 4 giu. – La quasi totalita’ delle persone rivede piu’ volte lo stesso film, ascolta piu’ volte la stessa canzone e va in vacanza sempre nello stesso posto, perche’ da questi comportamenti reiterati si soddisfano diverse necessita’ psicologiche. Il fenomeno e’ stato analizzato da Cristel Russell, professore di marketing alla American University di Washington, che lo ha chiamato ‘re-consumption’, ‘fruizione ripetuta’.

I dettagli della sua ricerca saranno pubblicati nel numero di agosto di Journal of Consumer Research, ma i risultati preliminari sono gia’ disponibili. Il consumo reiterato di un’opera musicale o cinematografica si motiva con la garanzia dei risultati di azioni ripetute e la soddisfazione delle repliche deriva da una migliore visione. Inoltre, le persone continuano a guardare con interesse anche film gia’ visti nella prospettiva di riscoprire piccoli dettagli che potrebbero aver dimenticato. “I comportamenti basati sul re-consumption ‘soddisfano’ cinque necessita’: regressiva, progressiva, ricostruttiva, relazionale e riflessiva”, ha detto la Russell. Lo stesso vale per la rilettura dei libri e il ritorno nelle solite localita’ di vacanza: secondo la ricercatrice la ragione e’ molto piu’ complessa della semplice nostalgia. Le motivazioni per cui le persone si prendono del tempo libero per ripetere sempre la stessa attivita’ sono “profonde e toccanti”, ha detto la ricercatrice, che ha condotto lo studio insieme a Sidney Levy. Naturalmente, dietro il reconsumption si celano anche risvolti economici.

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Il cervello dei depressi non stacca mai la spina

Niente pause e stand-by per chi è depresso. Il cervello non riesce mai a staccare la spina e a entrare in una fase di riposo e calma interiore. Ricercatori viennesi hanno scoperto perché questo accade: è un difetto nel meccanismo di distribuzione della serotonina a mettere i bastoni tra le ruote.

Chi soffre di depressione e ansia è vittima di uno stato continuo di tensione. Lo studio, pubblicato su Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences) ha svelato questo ulteriore segreto del cervello umano: quando non c’è niente da fare, e in condizioni normali, si attiva quello che viene definito “default mode network”, una complessa interazione tra reti neurali che corrisponde alla fase di “stand by” di computer ed elettrodomestici. Questo meccanismo consente il rilassamento interiore e apre la strada alla divagazione e ai sogni a occhi aperti, gli stessi “sintomi” di uno studente che guarda fuori dalla finestra.

Per chi è affetto da sindrome depressive e ansiose questo “blocco delle attività” nervose non arriva mai: colpa a quanto pare, secondo quanto scoperto dai ricercatori dell’Università di Vienna guidati da Siegfred Kasper, di un difetto del recettore 1 A della serotonina, l’ormone del buon umore. L’obiettivo del recettore è quello di spegnere l’interruttore dell’attività cerebrale principale, consentendo al cervello di entrare in una fase di quiete produttiva, utile probabilmente a conservare le energie cerebrali e a ripulire i collegamenti nervosi da un eccesso di comunicazioni. O almeno è quanto sperano adesso di ricostruire i ricercatori, che in questo modo auspicano di trovare soluzioni terapeutiche efficaci per chi soffre di depressione.

di Cosimo Colasanto (02/03/2012)

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Depressione: 6 sintomi insospettabili

Cado in depressione. Ho l’apatia. Mi sento depresso. Questa cosa mi deprime. Chissà quante volte, durante la giornata, ci capita di usare espressioni come queste… Nella stragrande maggioranza dei casi, lo facciamo a sproposito. La parola depressione, infatti, ha tante facce: può descrivere malesseri più o meno lievi, ma anche situazioni diverse come affaticamento, stress o tristezza legata magari a un fatto spiacevole. La depressione vera e propria, il disturbo mentale che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, entro il 2020, diventerà la seconda causa di invalidità nei Paesi occidentali dopo le malattie cardiovascolari, è qualcosa di ben preciso.

La depressione ha 4 volti

Secondo il professor Nicola Lalli, psichiatra e psicoterapeuta, già professore associato di Psichiatria e Psicoterapia presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esistono quattro tipi diversi di depressione.

La depressione reattiva, causata da eventi traumatici: perdite affettive, difficoltà economiche e sul lavoro.

La depressione nevrotica, dovuta al carattere che rende alcune persone ipersensibili a stress e frustrazioni: chi ne soffre tende a colpevolizzare gli altri.

La depressione maggiore o endogena, in cui l’individuo di solito si colpevolizza.

La depressione mascherata, difficile da diagnosticare perché si manifesta con malesseri fisici vari.

I sintomi inequivocabili della depressione

La depressione, in tutti i suoi volti possibili, ha una serie di sintomi inequivocabili.

Ecco i principali, secondo gli esperti della Mayo Clinic, una delle più prestigiose e autorevoli strutture sanitarie ospedaliere degli Usa. Alcuni di questi ci sono abbastanza familiari e anche facilmente collegabili alla depressione; altri, invece, sono decisamente sorprendenti Cominciamo da quelli più evidenti.

Tristezza o comunque infelicità diffusa.

Irritabilità o frustrazione, anche per questioni apparentemente senza importanza.

Perdita di interesse nelle attività consuete e quotidiane.

Diminuzione dell’interesse per il sesso.

Insonnia o sonno eccessivo.

Distrazione, difficoltà di concentrazione, indecisione.

Indolenza, apatia: anche le incombenze di poco conto risultano faticose.

Pensieri di morte o suicidio.

Crisi di pianto senza motivo preciso.

Senso di colpa, inadeguatezza, rimorso per fatti passati.

I sintomi della depressione che non ti aspetti

E poi ci sono quei segnali che in apparenza non verrebbe mai da collegare alla depressione. Vediamone alcuni dei più “insospettabili”:

Più peso: la depressione sciupa lo spirito, ma fa ingrassare il corpo. Al contrario di quanto si possa immaginare, il depresso non è affatto sempre e soltanto magro e smunto, ma al contrario può essere anche ben in carne.

Più appetito: il depresso ha spesso molta fame, a qualunque ora del giorno. Un team di scienziati dello University of Texas Southwestern Medical Center (Usa) ha scoperto come tutto dipenda da una sostanza chimica prodotta nel cervello e nello stomaco, la grelina, un potentissimo stimolante dell’appetito i cui livelli aumentano prima dei pasti e in associazione con il senso di fame.

La grelina cerca di tirare su il morale, ma fa anche provare piu appetito e cercare cibi “consolatori” come il gelato e la cioccolata.

Lentezza: il depresso pensa, agisce e parla lentamente. Come se tutto dipendesse da profondità d’animo. In realtà, a causa di un fortissimo disagio interiore.

Mal di schiena: dietro una lombalgia apparentemente inspiegabile, perché magari non si è mai sofferto di problemi simili, potrebbe nascondersi un principio di depressione.

Mal di testa: anche un’emicrania in chi prima non aveva mai avuto cefalee, potrebbe essere un segnale da non sottovalutare di un inizio di depressione.

Asma: secondo uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Heidelberg di Mannheim (in Germania), le persone molto ansiose, una condizione tipica di chi soffre di un principio di depressione, sono tre volte più esposte al rischio di sviluppare l’asma.

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Il disturbo post traumatico da stress

Il disturbo post traumatico da stress si sviluppa in seguito a forti traumi, come quello del naufragio della Concordia

di Caterina Steri

Da qualche settimana ad oggi si parla tanto dell’incidente della nave da crociera Concordia, evento che ha avuto sicuramente un forte impatto emotivo, non solo nei confronti di chi lo ha subito. Mi viene da pensare alle innumerevoli conseguenze che un incidente del genere possa aver causato: sociali, ambientali, economiche, familiari… Come psicologa, mi è facile supporre che tra queste ce ne siano alcune colpite da conseguenze psicologiche importanti. Tra le tante, il disturbo post traumatico da stress, che scaturisce infatti, in seguito ad eventi stressanti e traumatici quali catastrofi, incidenti e violenze, anche se l’aver vissuto un’esperienza traumatica non genera automaticamente un disturbo del genere. Questo disturbo viene anche chiamato nevrosi da guerra, perché riconosciuto tra le varie conseguenze sui soldati coinvolti nel conflitto bellico in Vietnam.

Per diagnosticarlo occorre che la presenza dei sintomi compromettano il funzionamento sociale e/o lavorativo della persona e che questi possano essere direttamente correlati ad un evento traumatico che abbia causato orrore, paura intensa o senso di impotenza.

Nelle vittime del disturbo post traumatico da stress si manifestano “il continuo rivivere l’evento traumatico, l’evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma, la riduzione progressiva della vivacità intellettiva e sensoriale” (DSM IV R).

Vi è poi un innalzamento dei livelli di ansia, depressione, rabbia, insonnia, incubi, difficoltà a concentrarsi.

Penso alle vittime della Concordia, piuttosto che a quelle delle alluvioni dei mesi precedenti, o dei terremoti, mi viene da rivolgermi a loro dicendo che tutti questi sintomi non sono manifestazione di follia, ma naturale conseguenza dei traumi subiti e che possono essere affrontati e risolti insieme all’aiuto di esperti. Il dolore e la paura possono essere affrontati, associando motivazione e convinzione nella possibilità di superarli.

13 febbraio 2012

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il sogno e l’interpretazione dei sogni

Sogni, significato dei sogni psicologia, interpretazione dei sogni, il sogno di freud

 

« Sogna perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare »E anche in terapia si può cercare quello che non troviamo nella vita di tutti i giorni.Quindi il sogno può dare  un aiuto fondamentale alla terapia che propongo .Un’avventura e una scoperta….

 

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Il sogno è un fenomeno legato al sonno e in particolare alla fase REM del sonno, caratterizzato dalla percezione di immagini e suoni apparentemente reali.

Lo studio e l’analisi dei sogni inducono a riconoscere un tipo di funzionamento mentale avente leggi e meccanismi diversi dai processi di pensiero che sono oggetto di studio della psicologia tradizionale.Freud nel ‘900, spiegò questa modalità di funzionamento dell’apparato psichico descrivendo la psicologia dei processi onirici e suddivise il funzionamento dell’apparato psichico in due forme che chiamòprocesso primario e processo secondario.

Secondo tale teoria psicoanalitica classica, il sogno sarebbe la realizzazione allucinatoria durante il sonno di un desiderio inappagato durante la vita diurna.

L’arte divinatoria che pretende di interpretare i sogni si chiama oniromanzia.

Dopo Freud, molti analisti di varie correnti si sono interessati al sogno. Contributi originali sono stati portati nel 1952 da Ronald Fairbairn, per il quale il sogno sarebbe un fenomeno schizoide, da interpretare alla luce della teoria degli oggetti parziali della Klein, ponendo l’accento sull’aspetto simbiotico della personalità.

Bonime nel 1962 propone una teoria del sogno basata sulla concezione che il sogno sia un autoinganno volto a preservare e a rafforzare un modello di vita, ponendo l’accento sull’aspetto comportamentale sociale della personalità.

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Gioco d’azzardo patologico


Gioco d’azzardo patologico, considerato ufficialmente una dipendenza senza droga.

Affinchè venga diagnosticato, è necessario che si presentino almeno quattro dei seguenti sintomi:

Coinvolgimento sempre crescente nel gioco d’azzardo (ad esempio, il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, ad escogitare modi per procurarsi il denaro con cui giocare)

Bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato

Irrequietezza e irritabilità quando si tenta di giocare meno o di smettere

Il soggetto ricorre al gioco come fuga da problemi o come conforto all’umore disforico (ad esempio, senso di disperazione, di colpa, ansia, depressione)

“Inseguimento” delle perdite: quando perde il soggetto ritorna spesso a giocare per rifarsi

Per nascondere il suo grado di coinvolgimento nel gioco Il soggetto mente in famiglia e con gli altri

Il soggetto compie azioni illegali per finanziare il gioco

Il soggetto mette a rischio o perde una relazione importante, un lavoro, un’opportunità di formazione o di carriera a causa del gioco

Confida negli altri perchè gli forniscano il denaro necessario a far fronte a una situazione economica disperata, causata dal gioco (una “operazione di salvataggio”).

Il gioco d’azzardo patologico, caratterizzato da una graduale perdita della capacità di autolimitare il proprio comportamento, assorbisce, direttamente o indirettamente, sempre più tempo quotidiano, creando gravi problemi che coinvolgono diverse aree della vita.

Alcuni autori (Custer, 1982) distinguono le fasi di progressione del gioco d’azzardo patologico:

Fase vincente: il gioco è occasionale e le vincite iniziali motivano a giocare in modo crescente; il gioco produce piacere e allevia le tensioni e stati emotivi negativi

Fase perdente: caratterizzata dal gioco solitario, dall’aumento del denaro investito, dalla nascita di debiti, dalla crescita del pensiero relativo al gioco e del tempo speso a giocare

Fase di disperazione: cresce ancora il tempo dedicato al gioco e l’isolamento sociale conseguente, degenerano i problemi lavorativi/scolastici e familiari (divorzi, separazioni)

Fase critica: in cui si sente il bisogno di chiedere aiuto, la speranza di uscire dal problema che si tenta di risolvere concretamente

Fase di ricostruzione: cominciano a vedersi i miglioramenti nella vita familiare, nella capacità di pianificare nuovi obiettivi e nell’autostima;

Fase di crescita: si raggiunge un nuovo stile di vita lontano dal gioco

Si può parlare di una vera e propria dipendenza dal gioco d’azzardo se sono presenti sintomi di tolleranza (il bisogno di aumentare la quantità di gioco), sintomi di astinenza (come malessere legato ad ansia e irritabilità, problemi vegetativi o a comportamenti criminali impulsivi) e sintomi di perdita di controllo (incapacità di smettere di giocare).

Numerosi studi hanno individuato tra i fattori di rischio che predispongono a diventare “giocatori d’azzardo impulsivi” o “giocatori-dipendenti”, tre aspetti, generalmente ritenuti in interazione fra loro:

Aspetti biologici: relativi a fattori principalmente neurofisiologici, ancora non ben dimostrati, ossia allo squilibrio che si potrebbe determinare nel funzionamento del sistema di neurotrasmettitori cerebrali atti a produrre serotonina, una sostanza chimica cerebrale, responsabile di un equilibrio affettivo-comportamentale, che nei giocatori patologici scenderebbe sotto i livelli comuni rispetto alla media

Aspetti ambientali-educativi: riguardanti sia l’educazione ricevuta e da una tendenza a stimolare e valorizzare le possibilità di felicità legate al possesso del denaro, sia la presenza di difficoltà economiche legate ad esempio allo stato di disoccupazione che sembra un particolare fattore di rischio per l’insorgenza del disturbo

Aspetti psicologici: presenza di tratti di personalità lussuriosa e avara di denaro, talvolta connessi al bisogno di riuscire a dimostrare un controllo sul destino.

Le fasce più a rischio sembrano invece, tra le donne, le casalinghe e le lavoratrici autonome dai quaranta ai cinquant’anni e, tra gli uomini, i disoccupati o i lavoratori autonomi che hanno un frequente contatto col denaro o con la vendita ed un’età intorno ai quarant’anni.

Dalla dipendenza da gioco si può guarire attraverso metodi individuali, di gruppo terapeutico, di auto-aiuto o di comunità. Gli obiettivi terapeutici vanno sempre centrati sulla possibilità di modificare, oltre che il comportamento di gioco, il groviglio di pensieri legati all’idea che prima o poi arriverà il giorno in cui il gioco potrà cambiare la propria vita risolvendo magicamente i propri problemi.

04 luglio 2011 di Caterina Ster

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Quando e perchè consultare uno psicologo

Nella vita di tutti i giorni ci troviamo ad affrontare innumerevoli problemi e situazioni che richiedono abilità e competenze differenziate.

In un mondo che ci richiede un costante lavoro di messa a punto delle nostre capacità di far fronte alle situazioni più disparate, abbiamo l’esigenza di una continua riprogettazione del nostro modo di vivere.

In questo contesto parlare con uno psicologo può aiutarti a trovare la giusta direzione.

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La paura di volare

a cura della dr.ssa Emanuela Boldrin – Psicoterapeuta

La fobia che ci condiziona il modo di viaggiare.

La paura di volare è un’ansia diffusa e anticipatoria che vivono molte persone e che condiziona a volte il desiderio di fare un viaggio in un posto lontano od obbliga a scelte impegnative quando ci si trova a dover affrontare un percorso lungo o faticoso.
Il termine corretto per definire questa fobia è aerofobia o aviofobia. Di solito la tensione emerge qualche giorno prima della partenza e si amplifica man mano che ci si avvicina all’evento.
Si esprime con sintomi psicosomatici di sudorazione eccessiva, rituali rassicuranti, tachicardia, senso di vertigine o nausea.

A livello psicologico quest’ansia tipica di tutte le paure, nasce per difenderci da un’emozione che sarebbe ancora più difficile da affrontare, è come un campanello d’allarme che ci esprime qualcosa che non va dentro di noi. Possiamo parlare di paura di mettere la propria sicurezza nelle mani di un pilota o di un mezzo come l’aereo, oppure paura di non poter scendere e sentire il suolo sotto i piedi, vivere una sfiducia nell’affidarsi agli altri ecc.

Se analizziamo il ruolo che viviamo come passeggeri in generale, possiamo spostare l’attenzione a come viviamo la stessa condizione in auto. Essere passeggeri colloca la nostra vita nelle mani di un individuo che guida e ci dirige. Se abbiamo un senso di disagio anche in auto sarà probabile vivere la stessa paura in un mezzo come l’aereo.

Le persone che soffrono di questa paura si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità di certe reazioni emotive, ma non possono controllarle.
In aereo siamo sospesi tragicamente ed inesorabilmente nel vuoto. Questo simbolicamente ci porta a vivere l’insicurezza e l’instabilità. In questo ambito si scatenano anche paure legate alla morte ed all’impotenza di fuggire per salvarsi.
Sembra che alcune fasi più di altre siano fonti di timore. In particolare vengono vissuti male il decollo e l’atterraggio, soprattutto se avvengono in situazioni meteorologiche instabili, con turbolenze, temporali o
forte vento.

Ci possono essere vari gradi di intensità nell’aviofobia. Si può passare dal semplice timore, più o meno lieve, dal disagio avvertito prima o durante il volo, al terrore assoluto che impedisce al soggetto di affrontare il volo o che provoca disagi molto seri fino alle crisi d’ansia acuta e al panico.
Spesso le persone che soffrono la paura di volare sono predisposte all’ansia anche per altre situazioni. Per questo motivo cercare in generale strumenti che combattono questo stato d’animo aiuta.
Quindi puntare su modulare una respirazione lenta, visualizzare scene piacevoli e rassicuranti, rilassarsi aiuta a predisporsi serenamente davanti all’evento di una partenza.
La paura di volare può essere avvertita anche da chi non ha mai volato, bloccandolo fin dalla semplice decisione di prendere l’aereo.
Questa situazione rischia di condizionare ai giorni d’oggi, dobbiamo quindi cercare di vivere le nostre paure non come ostacoli insormontabili o limiti al nostro stile di vita ma come strumenti per guardarsi dentro e migliorarci

AIUTI CONTRO LA PAURA DI VOLARE

  • Cercare di arrivare al volo riposati e puntuali
  • Cercare di fare il viaggio in compagnia di qualcuno
  • Durante il viaggio tentare di distrarsi chiacchierando, leggendo, guardando un film
  • Non guardare fuori del finestrino perché fa aumentare la paura
  • Evitare the, caffè e in generale bevande che possono agitare
  • Pensare di fare un breve percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale in cui si tenta di riprodurre simbolicamente una situazione di stress.

LE CAUSE Possono essere di varia natura.

Si può avere paura:

  • degli spazi chiusi, come quello di un aereo
  • dell’altezza
  • di non avere il controllo della situazione (fine del topo)
  • delle folle
  • di esperienze precedenti traumatizzanti accadute in volo (o la perdita di familiari, amici, in un disastro aereo)
  • di attacchi terroristici
  • delle turbolenze
  • di avere un attacco di panico
  • di volare sull’acqua o di notte
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Terremoto in Giappone

L’impatto psicologico nelle persone coinvolte in un evento catastrofico

Il Dopo la catastrofe avvenuta nel dicembre 2004, il mondo si trova ad affrontare un altro evento naturale di proporzioni immani che ha distrutto città e provocato la morte di migliaia di persone. Il terremoto e lo tsunami di questi giorni hanno sconvolto il Giappone e tutto il resto del mondo che assiste impotente a questo disastro. Lo tsunami ha spazzato via case, navi, aerei, tutto ciò che trovava sul proprio percorso causando la morte di decine di migliaia di persone. L’impatto psicologico che un evento così drammatico può avere sui sopravvissuti è potenzialmente molto profondo. disturbo che di solito sviluppano le vittime dei disastri si chiama disturbo post-traumatico da stress (PTSD, post-traumatic stress disorder) causato da “un evento traumatico che la persona ha vissuto direttamente, o a cui ha assistito, e che ha implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. L’evento deve aver creato paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore”. I veterani di guerra sono i soggetti nei quali l’esposizione a questo genere di stress è più frequente.

I sintomi del disturbo post-traumatico da stress vengono raggruppati in tre categorie principali (Kring, Davison, Neale e Johnson, 2007).

  1. Rivivere l’evento traumatico. Il soggetto richiama spesso alla memoria il trauma vissuto o esso riaffiora sotto forma di incubo. Il soggetto può essere fortemente turbato da stimoli che ricordano l’evento (rumori, suoni, urla, ecc.).
  2. Evitamento degli stimoli associati all’evento traumatico oppure ottundimento della reattività. Nel primo caso le persone cercano di evitare tutto ciò che potrebbe ricordare loro l’evento traumatico; nel secondo caso, i soggetti manifestano un diminuito interesse per gli altri, un senso di distacco e di estraniamento e incapacità di provare emozioni positive. Queste due reazioni così diverse in realtà non sono in contrapposizione, in quando può accadere che vi sia una notevole oscillazione tra una fase che fa rivivere il trauma ad una fase che invece diminuisce la percezione emotiva.
  3. Sintomi di aumentata attivazione fisiologica. Questi sintomi comprendono difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno, difficoltà di concentrazione, ipervigilanza ed eccessive risposte di allarme.
  4. Altri disturbi psicologici si associano spesso al disturbo post-traumatico da stress, quali l’ansia, la depressione, la rabbia, il senso di colpa e l’abuso di sostanze. Comuni sono anche i pensieri suicidari, così come episodi esplosivi di violenza e problemi di natura psicofisiologica connessi con lo stress, come cefalea e disturbi gastrointestinali.È importante avere ben presente questa costellazione di sintomi per organizzare un trattamento efficace dei sopravvissuti.
  5. La dissociazione e la soppressione dei ricordi possono contribuire al mantenimento del disturbo in quanto impediscono alla persona di confrontarsi con i ricordi del trauma. Proprio per tali motivi il debriefing per lo stress da incidenti critici (CISD, critical incident stress debriefing) è una procedura di intervento immediato (entro 72 ore) sulle vittime di un grave trauma. Il CISD è di solito limitato ad un’unica, lunga sessione organizzata per gruppi, ma anche per singoli individui, indipendentemente dall’eventuale manifestarsi di sintomi.

Il terapeuta incoraggia le persone a ricordare i particolari dell’evento di cui sono state vittime e le invita a esprimere con la maggiore completezza possibile ciò che sentono. I terapeuti che applicano questo metodo di solito visitano il luogo del disastro immediatamente dopo che si è verificato, talvolta su invito delle autorità locali (come è avvenuto dopo l’attacco dell’11 settembre al World Trade Center), altre volte no; la terapia viene offerta sia alle vittime che ai loro familiari (Kring, Davison, Neale e Johnson, 2007). L’utilizzo di questa metodica è piuttosto controverso. Per alcuni studiosi è meglio che i sopravvissuti seguano un normale e più lungo percorso terapeutico che permetta loro di rivivere il trauma in modo più graduale. Un altro tipo di terapia psicologica prevede la riesposizione della persona agli stimoli traumatici, ma in modo organizzato e con il sostegno del terapeuta (ad esempio: esposizione diretta, tecniche di immaginazione guidata, ipnosi).
Ad ogni modo l’obiettivo di ogni intervento terapeutico è soprattutto quello di potenziare la percezione di sicurezza e di ridurre le reazioni di paura e di mancanza di controllo dei superstiti. Non dimentichiamo che il nostro organismo di solito neutralizza gli eventi stressanti grazie alle cosiddette strategie di coping. Ma l’impatto psicologico generato dal terremoto e dallo tsunami è troppo forte per essere neutralizzato dalle risorse personali di ciascun individuo. Per questo è fondamentale intervenire subito, in particolare sui bambini che hanno ancora meno risorse psicologiche per affrontare un disastro di tale portata.

14 marzo 2011 di Elisabetta Rotriquenz

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Lo Stress: sindrome di adattamento

Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.Lo stress è una sindrome di adattamento a degli stressor (sollecitazioni). Può essere fisiologica, ma può avere anche dei risvolti patologici.

Indice

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  1. Stressor e problem solving
  2. La sindrome generale di adattamento di Selye
  3. Biochimica dello stress
  4. Patologia
  5. Diagnosi
  6. Note
  7. Bibliografia
  8. Voci correlate
  9. Altri progetti
  10. Collegamenti esterni

Stressor e problem solving

 

 

stress

Ogni stressor che perturba l’omeostasi dell’organismo richiama immediatamente delle reazioni regolative neuropsichicheemotivelocomotorieormonali e immunologiche.Anche eventi di vita quotidiana possono portare a mutazioni anche radicali dovute all’adattamento. Malgrado ciò, l’adattamento è un’attività complessa che si articola nella messa in atto di azioni finalistiche destinate alla gestione o soluzione dei problemi, alla luce della risposta emotiva soggettiva suscitata da tali eventi.La capacità di indirizzare le azioni adattative implica sia la possibilità di azioni finalizzate a modificare l’ambiente in funzione delle necessità del soggetto, sia l’eventualità di intraprendere una modificazione di caratteristiche soggettive per ottenere un migliore adattamento all’ambiente circostante.Ad esempio, per adattarsi a un clima rigido, si può decidere di accendere un fuoco, o di indossare abiti più pesanti: l’adattamento dipende dalle capacità di problem solving, ma anche dalla presenza di opportuni elementi ambientali, economici o relazionali.Per inquadrare la capacità di adattamento, occorre anche un asse temporale, composto da più varianti: l’età del soggetto, il suo tempo di reazione e il tempo richiesto dall’evento per ottenere un adattamento efficace. Infatti, un bambino piccolo non riuscirà ad utilizzare appieno e con la stessa velocità una medesima capacità adattativa dell’adulto. Per contro, risulterà più difficile scansare un proiettile di arma da fuoco che non un pallone.La prevedibilità, la conoscenza e la gravità degli eventi giocano un ruolo fondamentale nella possibilità di instaurare delle strategie adattative atte a gestirli. Ad esempio, il lutto per la perdita di una persona cara è, di solito, più facilmente elaborabile quando la persona era anziana e la sua scomparsa era stata prevista da tempo. All’opposto è problematico l’adattamento in caso di esposizione a eventi catastrofici e improvvisi.Il maggiore o minore successo dei processi adattativi è dato dal bilancio tra le caratteristiche qualitative e quantitative degli eventi che li suscitano e le risorse personali del soggetto coinvolto.Si considerano:

Un soggetto può essere capace di affrontare determinati eventi, ma non essere in grado di fronteggiare e gestire in modo adattativo con gli stessi esiti eventi differenti.

Diagnosi

La diagnosi del livello di stress cronico a cui è soggetto un individuo non è semplice, né univoca, data la genericità del fenomeno e la soggettività nel reagire ai diversi fattori di stress.Il metodo più classico per misurare il livello di stress, di impianto prettamente psicologico, si basa sulla compilazione di questionari che indagano o la presenza nella vita del paziente (nel presente o nel passato prossimo) di fattori di stress (quali la perdita d persone care, del lavoro, etc), oppure il manifestarsi di sintomi legati allo stress o alla depressione (problemi del sonno, attacchi di panico, etc…). Risulta chiaro come la soggettività nel reagire ai fattori di stress, o nella stessa valutazione dei sintomi, sia il principale problema di questa metodologia, comunque ampiamente adottata allo stato dell’arte. Nel tentativo di rendere la valutazione il più oggettiva possibile, negli ultimi decenni si è passati a studiare le alterazioni fisiologiche dello stress, che principalmente dipendono da un’iperattivazione simpatica e un’inibizione del compartimento parasimpatico, principalmente riguardanti gli effettori cardiaci. La misura diretta dell’attività del sistema nervoso può essere effettuata direttamente tramitemicroneurografia, una tecnica complessa e delicata che registra il livello di attività di un nervo periferico tramite microelettrodi; è tuttavia non adatta per essere applicata su vasta scala. Dato che il sistema simpatico viene attivato tramite la secrezione dinoradrenalina, si può misurare il flusso/ il livello di questo neurotrasmettitore tramite analisi del sangue. Alternativamente si può misurare il livello di ACTH e cortisolo, un ormone immunosoppressore e potenzialmente diabetizzante rilasciato in caso di stress, in sangue, urine o nella saliva. Un metodo completamente diverso si basa sullo studio dell’attività cardiaca e pressoria nel soggetto, dato che la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa dipendono essenzialmente dalla bilancia dell’attività simpato-vagale. Monitorando il soggetto attraverso l’elettrocardiogramma e un holter pressorio in un ambiente accuratamente preparato per risultare privo di alcuno stimolo (pareti bianche, aria e temperatura ambiente adeguate, silenzio) si può, con relativa accuratezza, misurare lo stato vegetativo del paziente stesso.

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Quale terapia per quale paziente

I dati di Peter Fonagy, direttore del dipartimento di Psicologia Clinica presso lo University College di Londra

“La psicoterapia è efficace nel 75% dei pazienti, rispetto ai pazienti non trattati”. Con queste parole Peter Fonagy, direttore del dipartimento di Psicologia Clinica presso lo University College di Londra, presidente del Centro Anna Freud della capitale inglese e coautore del volume «Psicoterapie e prove di efficacia. Quale terapia per quale paziente?», ha descritto, al XIII Congresso dell’Escap, le prospettive e l’efficacia dell’intervento psicoterapico (basato, per definizione, sull’ incontro non medicalizzato tra medico e paziente).

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La rabbia: sfogarla o soffocarla?

a cura della dr.ssa Emanuela Boldrin – Psicoterapeuta

Se c’è una soluzione… perché ci si arrabbia? e se non c’è una soluzione perché ci si arrabbia?

rabbia sfogarla o reprimerla

Spesso la rabbia viene descritta come emozione negativa, ci viene detto che è sbagliato esprimerla perché possiamo ferire gli altri, che dobbiamo preferire la ragione per confrontarci e che socialmente non è accettata perché vista come aggressività o un capriccio. Se non esprimiamo però ci troviamo con una sensazione repressa che si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e alimenta un sentimento di inferiorità inoltre, quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre. Numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi possono essere legate al soffocamento della collera.

La rabbia quindi è un’emozione che dobbiamo ascoltare e nel limite del possibile esprimerla incanalandola in modo tale da non recare danni a sé stessi o agli altri…

Possiamo dire che in generale esprimere la propria rabbia fa bene alla salute ma può provocare problemi relazionali e spesso crea il rischio di arrabbiarsi nuovamente per lo stesso motivo.

Quando la rabbia esplode è molto difficile controllarsi, il tono è alterato, il contenuto verbale offensivo come se si volesse annullare, offendere,umiliare,ridicolizzare il nostro interlocutore. Poi dopo averlo ferito si riesce a chiedere scusa ma il recupero non è mai completo e la traccia di malessere o il risentimento non viene mai annullato del tutto. È importante distinguere i vari tipi di rabbia: quella positiva che si esprime davanti ad un’ingiustizia subita e che ci spinge ad agire per superarla.

Quella negativa legata al rancore trattenuto, non sfogato e che poi tende a scatenarsi in modo nocivo alla nostra salute. Sembrano simili queste due emozioni in realtà attivano differenti aree del cervello.

Come esprimerla e controllarla?

La rabbia è un sentimento naturale che dobbiamo ascoltare e cercare di non farci dominare da essa.

E’ importante individuare i reali motivi che la fanno esplodere, cosa ci fa irritare veramente e dove ci sentiamo colpiti.

Questo insieme ad un bel respiro prima di lasciarla esprimere è una buona regola per seppellire l’ascia di guerra. Occorre

insomma decodificarla, allenarsi ad indagare le cause.

Di solito chi mantiene l’astio o si altera senza una ragione precisa non ha quelle che si chiamano le valvole di sfogo cioè quei momenti di libertà o spazi di soddisfazione personale. Per questo è importante ritagliarsi i propri momenti di rilassamento, di sport, di lettura, di scarico della tensione.

Le caratteristiche che contraddistinguono le persone che tendono frequentemente ad arrabbiarsi sono l’essere critici, intolleranti,

svalutativi sulle altre cose e persone.

Il sentirsi costantemente inadeguato genera un sentimento di frustrazione che poi si esprime con l’emozione di rabbia, si genera la

tendenza ad attribuire agli altri le proprie insoddisfazioni .

Davanti alla provocazione o quando sembra di perdere il controllo della situazione occorre alzare un impermeabile nucleare che disattiva le reazioni più distruttive.

Reazioni davanti alla rabbia

– cercare di non alzare di più la voce, spesso peggiora la situazione, ascoltare almeno pochi minuti e poi rispondere

– distrarlo con qualcosa di estraneo alla discussione a volte fa “riprendere” il controllo

– cercare di capire il motivo dello sfogo questo accorcia la distanza emotiva

– se non c’è risultato allontanarsi fisicamente in modo da ribadire il distacco dallo sfogo.

– aiutarsi con respiri profondi che partono dall’addome e fanno uscire l’aria con la bocca.

Non c’è bisogno di urlare o di arrivare addirittura alle mani per esprimere la propria irritazione.

L’arma migliore è la parola.

E’ bene però utilizzarla consapevolmente per esprimere i veri motivi delle nostre insoddisfazioni.

Dietro la collera si nasconde sempre una sofferenza.

Adirarsi ad ogni costo e contro chiunque è un modo per sottrarre energia alla disperazione e non guardare in faccia il dolore.

Perché il proprio malcontento sia preso seriamente in considerazione, è bene esprimerlo con la massima calma.

E ricordiamoci che se c’è una soluzione… perché ci si arrabbia? e se non c’è una soluzione perché ci si arrabbia?

E’ fondamentale dunque, per la nostra salute psico-fisica, imparare a riconoscerla al momento in cui emerge ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata perché è il tentativo di intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.

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Le garanzie di professionalità (dal volantino ”Campagna di informazione a tutela del cittadino”)

La professione di psicologo è prevista dalla legge n°56 del 1989, per la quale “la professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.

La legge 56/89 prevede inoltre la costituzione degli Ordini regionali. L’esistenza di un ordine degli Psicologi garantisce che lo psicologo iscritto all’albo abbia svolto un adeguato  percorso formativo in ambito universitario, un tirocinio formativo della durata di un anno e un successivo esame di stato necessario per ottenere l’abilitazione a svolgere l’attività professionale.

L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è riservato agli psicologi e ai medici iscritti ai rispettivi albi professionali e subordinato ad una specifica formazione professionale. L’autorizzazione all’esercizio è annotata esplicitamente nei rispettivi Albi.

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Wikipedia: la psicoterapia

La psicoterapia è una branca specialistica della psicologia che si occupa della cura di disturbi psicopatologici di diversa gravità che vanno dal modesto disadattamento all’alienazione profonda e possono manifestarsi in sintomi nevrotici oppure psicotici tali da nuocere al benessere di una persona fino ad ostacolarne lo sviluppo causando fattiva disabilità; a tal fine si avvale di tecniche applicative della psicologia dalle quali prende specificazione: psicoterapia cognitivo-comportamentale, psicoterapia psicoanalitica, ecc.

Professionalmente la psicoterapia è una specializzazione sanitaria riservata a Medici e Psicologi iscritti ai rispettivi Ordini professionali e in Italia si consegue mediante un percorso formativo presso scuole di specializzazione universitarie ovvero in scuole di specializzazione private. Queste ultime legittimate da una Commissine di controllo del MUR – Ministero dell’Università e della Ricerca – ad erogare formazione specialistica.

Etimologicamente la parola psicoterapia – “cura dell’anima” – riconduce alle terapie della psiche realizzate con strumenti psicologici quali la parola, l’ascolto, il pensiero, la relazione, nella finalità del cambiamento consapevole dei processi psicologici dai quali dipende il malessere o lo stile di vita inadeguato e connotati spesso da sintomi come ansia,depressionefobie, etc

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Disordini alimentari

Abulimia anoressia - disordini alimentari

Segnalo alcuni libri che affrontano, da angolature diverse, le problematiche relative ai disordini alimentari.

Bell R.M. (1987), La santa anoressia, Laterza, Roma.

Bruch R., La gabbia d’oro, Feltrinelli, Roma.

Castellana F. (1994), L’angoscia di essere niente, Melvina editrice.

De Clercq F. (1990), Tutto il pane del mondo, Bompiani.

De Clercq F. (1995), Donne invisibili, Rizzoli.

De Jours C. (1988), Il corpo tra biologia e psicoanalisi, Borla, Roma.

Esquievel L. (1991), Dolce come il cioccolato, Garzanti.

Ferrari C. (1993), Adolescenza, la seconda sfida, Borla, Roma.

Gordon R.A. (1991), Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, Raffaello Cortina, Milano.

Haushofer M. (1991), Un cielo senza fine, Edizioni e/o.

Montanari M. (1994), La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari.

Montecchi F. (1994), Anoressia mentale dell’adolescenza, Franco Angeli, Milano.

Neri C. (1995), Gruppo, Borla, Roma.

Pace P. (1993), L’anoressia: lettere intorno ad un enigma, Guaraldi, Firenze.

Palazzoli Selvini M., L’anoressia mentale, Feltrinelli, Milano.

Palmer E., Anoressia, Borla.

Raimbeut G., Eliachef C. (1989), Le indomabili, Mondadori, Milano.

Schelotto G. (1992), Una fame da morire, Mondadori, Milano.

Shute J. (1992), La perfetta ossessione, Frassinelli, Milano.

Wolf N. (1991), Il mito della bellezza, Mondadori, Milano.

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Attacchi di panico

Diagnosi attacco di panico

attacco di panico

Un attacco di panico corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati con una sensazione di catastrofe imminente.

Un periodo preciso di intensa paura o disagio, durante il quale quattro (o più ) dei seguenti sintomi si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nel giro di 10 minuti:

  1. palpitazioni,cardiopalmo, o tachicardia
  2. sudorazione
  3. tremori fini o grandi scosse
  4. dispnea o sensazioni di soffocamento
  5. sensazioni di asfissia
  6. dolore o fastidio al petto
  7. nausea o disturbi addominali
  8. sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento
  9. derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da sé stessi)
  10. paura di perdere il controllo o di impazzire
  11. paura di morire
  12. parestesie(sensazioni di torpore o di formicolio)
  13. brividi o vampate di calore.

 

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Il disagio: sintomo o segnale ?

Persone molto diverse, per carattere, età, occupazione, situazione familiare, parlano di sé in questi termini. E il profondo sconforto che se ne prova cede a volte il passo all’irritazione: perché questo compianto, perché questa passività? Perché ancora e sempre la richiesta di rapporti infantilmente rassicuranti? Perché la fuga dal mondo là fuori? Perché l’instancabile ricerca di un paradiso perduto che non verrà mai più? Al di là della propria storia personale, su cui si radica la fondatezza del disagio, vero, reale e grande, perché quella soluzione?

Parlando insieme a persone piacevoli, intelligenti, la parola patologia sembra inadatta. Sembra più adatta la parola malinteso. Persone vittime di un grande generale abbaglio che il male e il dolore non esiste se solo si riesce a trovare degli stratagemmi per evitarli. Che sia possibile vivere senza conflitti, differenze, separazioni. Il cibo droga o il corpo amuleto sembrano inutili esorcismi. E le anoressiche e le bulimiche lo sanno perfettamente: sanno che non ha funzionato. Ma non c’è alternativa dentro a quella logica in cui non si parla mai del dolore.

Si parla di colpa: propria e degli altri. Anche questo aspetto poggia su solide basi culturali. Smantellare l’edificio di reciproche colpe per parlare in termine di dolore, di reale difficoltà dell’esistenza, di reale perdita del paradiso che forse non c’è stato mai, questa mi sembra una strada per affrontare l’immane disistima che tutte queste persone hanno di sé e del mondo. Interrogarsi sulla loro autonomia mancata significa anche connetterla con la cultura della dipendenza e della competizione: cultura paradossale anch’essa. Riconnettere le loro storie al contesto che occultamente le spinge a negarsi la libertà di esprimere bisogno e difficoltà, ma anche individualità, è un’operazione più che terapeutica, culturale.

Individuare il disagio come esasperato segnale di una condizione sociale diffusa, significa modificare i termini della questione, e accantonare i termini della patologia significa parlare non più di sintomo ma di messaggio. Un quadro di riferimento non più soltanto psicologico, più attento all’interconnessione fra individuo e società, dovrebbe permettere di cogliere meglio un messaggio che ci coinvolge tutti.

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Il sonno dei bambini

I problemi legati al sonno danno spesso origine a preoccupazioni ed incertezze nei genitori. Molte difficoltà del sonno sono semplicemente problemi comportamentali minori mentre altri cambiamenti del sonno sono invece indice di seri disturbi. Una maggiore conoscenza dello sviluppo e degli disturbi del sonno ha una grande importanza al fine di un’accurata diagnosi e di interventi efficaci. Una panoramica descrive i più comuni ed importanti disturbi del sonno nell’infanzia durante il periodo della crescita e dell’adolescenza compresi il sonnambulismo, i risvegli parziali, il respiro disturbato durante il sonno, la narcolepsia e la perdita del sonno e di seconda importanza orari tardi ed eccentrici. Questo capitolo focalizza l’attenzione sulla stretta relazione tra la regolazione del sonno ed il controllo dell’attenzione, delle emozioni e del comportamento. Il fatto che molti bambini ed adolescenti non riescano ad ottenere una quantità di sonno ottimale pone una serie di domande importanti riguardo il crescente numero di problemi comportamentali ed emozionali.

I bambini che soffrono di disturbi del sonno sono spesso disattenti ed iperattivi, e ad alcuni di loro si diagnostica un deficit nell’attenzione o problema di iperattività (ADHD) fino a che non si scopre che soffrono di disturbi del sonno. Comunque non conosciamo il potenziale impatto sul comportamento dei disturbi del sonno. Abbiamo cercato di stabilire se nei bambini con maggiori livelli di disattenzione e di iperattività si possa riscontrare più frequentemente dei sintomi di disturbi della respirazione collegati al sonno (SRBDs) e dei periodici disturbi nei movimenti degli arti (PLMD). Abbiamo osservato i genitori di bambini dell’età compresa tra i 2 fino ed i 18 anni in una clinica di neopsichiatria infantile (n=70) ed in una clinica pediatrica generale (n=73) per valutare il comportamento dei bambini, il loro russare, le lamentele di gambe senza riposo =agitate durante la notte e la sonnolenza diurna. Un convalidato questionario sul sonno, usato in pediatria, fornisce le variabili esplicative, ed una scala per la disattenzione e l’iperattività, presa dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4° edizione (DSM-IV) dà le variabili dipendenti. Si è visto che l’abitudine di russare è più frequente (33%) nei bambini con diagnosi di ADHD che tra gli altri bambini delle cliniche di neopsichiatria infantile o di pediatria generale (rispettivamente 11 e 9%, chi-square test, p=0.01). Un punteggio per il russare che è dato in base alle risposte a 6 domande sul russare e sui SRBD è associate ad un maggiore livello di disattenzione ed iperattività. La lamentela di gambe senza riposo= agitate ed un punteggio composto per la sonnolenza diurna hanno mostrato, anche se con minor evidenza, l’associazione tra disattenzione ed iperattività. L’associazione tra il russare e la disattenzione e l’iperattività suggerisce che gli SRBDs e forse anche altri disturbi del sonno potrebbero essere la causa di disattenzione ed iperattività in alcuni bambini. Se esiste un effetto di causa i nostri dati suggeriscono che l’81% dei bambini che regolarmente russano, affetti da ADHD che rappresentano il 25% di tutti i bambini con ADHD, potrebbero essere curati da questo disturbo se il loro abituale russare e qualsiasi SRBD associato fosse trattato efficacemente.

52 bambini senza significativa irrequietezza nel sonno, visitati in una clinica di primary care (per l’infanzia) per well-child care sono stati paragonati sul temperamento, sullo stile d’educazione usato dai loro genitori, sul loro comportamento diurno e soprattutto sull’irrequietezza nel sonno e poi suddivisi in tre sottogruppi diagnostici identificati in una clinica pediatrica del sonno: bambini con apnea ostruttiva nel sonno (n=33), parasomnias (terrori notturni, sonnambulismo ecc.,) (n=16) e disturbi del comportamento nel sonno (confusione nel porre dei limiti ecc.) (n=31). L’età media dell’intero campione era 5.7 anni. L’emotività del temperamento nel gruppo dei disturbi comportamentali nel sonno era associato ad un livello più alto di irrequietezza nel sonno (p<0.01); la laxness (l’essere lassisti) da parte dei genitori era associata ad irrequietezza nel sonno nella popolazione pediatrica generale (p<0.1); e caratteristiche di temperamento intenso e negativo sembravano essere associate ad irrequietezza nel sonno clinicamente significativa. Stili d’educazione inefficaci e comportamenti diurni scostanti erano più facilmente associati ad un’irrequietezza nel sonno più lieve riscontrata nei bambini in un ambiente di primary care (cura della prima infanzia).

Si sostiene che un’interazione armoniosa con la madre o con colui/colei che accudisce principalmente il bambino (accordo) è critico per lo sviluppo del regolamento delle emozioni. Si è visto che una non disponibilità fisica influisce sul comportamento del bambino nel gioco e sui modelli del sonno. Una situazione creata in laboratorio che prevede da un lato un paradigma di una faccia ferma e dall’altro un temporaneo prendere e lasciare suggerisce che la faccia ferma abbia più effetti negativi sul comportamento di interazione del bambino. Si è visto che cambiamenti nella fisiologia (battito del cuore, tono vagale, livelli cortisol), nel comportamento durante il gioco, negli affetti, nel livello di attività e nell’organizzazione del sonno (così come altre funzioni regolatori come il mangiare ed andare in bagno) persistono per la durata della depressione della madre. Si discute delle differenze individuali (in relazione alla maturità, al temperamento/personalità, al livello di non unione (mismatch) tra la madre ed il bambino).

Dott.Prosperi Donella